Teatri di rovine, di Fabio Amodeo

Teatri di rovine

Dopo che tutto è stato detto e fatto, la fotografia si rivela capace di una sola operazione: riprodurre ciò che è stato davanti all’obiettivo in un momento preciso, quello dello scatto. Tutto qua, semplicemente. Non è neppure in grado di rivelarci se ciò che vediamo nell’immagine è frutto di una narrazione di una realtà esistente, oppure di un qualcosa di organizzato, messo in scena dal fotografo o dai suoi collaboratori. Per avere quest’informazione dobbiamo appoggiarci ad indagini aggiuntive: alcuni autori dichiarano per il genere stesso delle fotografie di aver organizzato un set: è sempre stato così, ad esempio, per il ritratto in studio, oppure per le immagini di natura pubblicitaria o promozionale. Per una lunga fetta del Novecento, ad esempio, gli Stati hanno organizzato delle messe in scena, diffondendole poi come narrazione, testimonianze di realtà: negli anni dei totalitarismi hanno usato questa tecnica per premere sulle coscienze dei cittadini, inducendo i nostri padri e i nostri nonni a credere a qualunque tesi convenisse alle dittature.

L’altro elemento che la fotografia non può nascondere è quello del tempo dello scatto. È un elemento cruciale, perché ci consente di mettere in relazione l’immagine, ogni immagine, con la storia. È uno degli elementi cruciali nelle opere di Stefano Tubaro. I soggetti, in effetto sono rovine, opere umane deteriorate dal tempo. Quando parliamo di rovine, siamo abituati a  considerare edifici deteriorati da eventi traumatici, terremoti, incendi, guerre, oppure da tempi molto lunghi. Le rovine di Tubaro sono di un altro genere. Salvo qualche eccezione, sono recenti, il che ci suggerisce che nei tempi dell’edilizia funzionale i tempi della rovina si sono accorciati. Poi ci mostrano ambienti lasciati così com’erano, con pannelli di comando, arredi, oggetti, lasciati cadere al momento dell’abbandono e rimasti lì. Tutto questo, assieme all’abbondanza dei reperti fotografati da Tubaro, ci consente di capire come la nostra società sia singolarmente incapace di riutilizzare l’edilizia consumata, ma anche di rottamarla, demolirla. Le rovine delle ultime ere industriali restano semplicemente lì, per anni e anni, alla ricerca di un riutilizzo che arriva di rado. Le nostre caserme, costruite per la leva di massa, sono lì inusate da poco più di dieci anni, e i casi di riutilizzo sono l’eccezione, non la regola. E sono già sulla buona strada per essere titolate rovine: una recente indagine, legata alla necessità di ricollocare gli immigrati, ha rivelato che gli edifici usabili si contano nella nostra regione sulle dita di una mano. Esiste una sostanziale incapacità a progettare il riuso, la modifica, la valorizzazione dell’esistente: se emerge una nuova necessità si pensa subito a nuova edificazione, e solo in via molto subordinata al riuso. È l’eredità dei tempi in cui potere locale e industria edilizia si sostenevano a vicenda, di cui subiamo ancora i postumi nell’ideologia delle grandi opere. E così gli edifici non più utilizzati si avviano a una rapida metamorfosi. Da luoghi di lavoro e produzione si avviano a diventare reperti, testimonianze per chi voglia leggerle, primo passo sulla strada dello status di rovina.

Fin qui, quella di Stefano Tubaro si configura come un’operazione di documentazione. Ma basta dare un’occhiata alle sue opere per capire che non si tratta solamente di questo. Le immagini sono colorate, e alcune aree subiscono una colorazione che appare come artificiale, creata e scelta dall’artista. La tecnica è quella delle luci artificiali filtrate attraverso delle gelatine colorate: una tecnica le cui origini vanno ascritte al mondo dello spettacolo, al teatro. Tutto questo crea un istantaneo corto circuito: alla documentazione fotografica siamo spinti, spesso sbagliando, a credere come se si trattasse di una trascrizione oggettiva, mentre il mondo della scena, del teatro, si basa su una complicità tra attori e pubblico, e cioè la comprensione che si tratta di un evento costruito dalla fantasia e dalla creatività umana, di una fiction. Nessuno è disposto a credere alla verità teatrale, mentre molti di noi reputano istintivamente (ripetiamo, spesso sbagliando) la documentazione fotografica come vera.

Il corto circuito dell’artista ci porta così inevitabilmente a uno dei temi fondamentali dell’estetica artistica contemporanea. Lo sappiamo, sin dai tempi del teatro greco (cioè uno dei filoni-madre della nostra cultura) che la fiction non è racconto accaduto, eppure è in grado di portarci più in profondità di ogni altra espressione in fondo ai meandri dell’animo umano. Nello stesso modo, l’estetica fotografica contemporanea si chiede se le immagini messe in scena dagli artisti siano in grado di portarci più vicino al cuore delle cose, rispetto ai lavori di documentazione e testimonianza. Non c’è una risposta che valga sempre, la forza delle singole opere costringe a variare continuamente il nostro giudizio. La contaminazione di Tubaro contiene in sé una propria specifica risposta.

Fabio Amodeo

(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Metamorfosi dei luoghi”, Agriturismo Colonos – Villacaccia di Lestizza e Galleria Civica Tina Modotti, Udine 2016)