La fotografia: squarci di luci e ombre, di Angelo Bertani

La fotografia: squarci di luci e ombre

L’addizione è un’operazione ottimistica e costruttiva, certamente rassicurante. Di fronte alla complessità del reale prima si isolano i singoli elementi e poi magari li si accosta per vicinanza sommativa. E’ così che convenzionalmente si può sfuggire alle sabbie mobili del tempo avendo pure la speranza (o l’illusione) di aggiungere conoscenza a conoscenza attraverso una serie infinita di addizioni. La sequenza fotografica (e ancor più evidentemente la striscia di negativi 35 millimetri così tipicamente “modernista”) appartiene di certo a questa visione concatenante, contemporaneamente ansiosa e rassicurante: immagine dopo immagine forse fermeremo il tempo, o quanto meno gli daremo un significato, effimero sì ma alla fine percepibile, strutturabile, se non addirittura malinconicamente confortante.

In fondo, al di là delle apparenze create apposta per confondere al primo sguardo, Stefano Tubaro con la fotografia ci parla innanzi tutto della fotografia, della sua storia e del suo dilatato presente. Egli parte sempre dai fondamenti originari del mezzo: la luce, naturalmente, in tutte le sue variazioni naturali e artificiali, ma anche la posa lunga o lunghissima proprio perché la fotografia non è stata creata in origine solo per congelare l’attimo irripetibile, diventato ora ossessione strumentale, quanto piuttosto per sacralizzare laicamente il tempo attraverso una sua percezione che potesse garantire la memoria e dunque un aspetto durevole e duraturo. Oggigiorno, quando ormai il concetto stesso di realtà è ritornato ad essere, dopo qualche entusiasmo engagé , un concetto quanto mai problematico (sono ancora pensabili fotografie “oggettive” nell’epoca della manipolazione mediatica?), ecco che il riflettere su alcuni fondamenti del mezzo può risultare quanto mai opportuno e utile, specie se quotidianamente ci troviamo sommersi dalla retorica enfatizzante delle immagini mediatiche, tutt’altro che liberatoria.

Nella serie di opere dal titolo Contrattempo (1997-2002) Stefano Tubaro ha individuato in edifici dismessi o abbandonati la quinta teatrale più adeguata per mettere in scena la rappresentazione della fotografia attraverso la fotografia. Individuato con attenzione il luogo (isolato o isolabile), egli ha costruito passo passo l’immagine servendosi di pose lunghissime e di addizioni luminose: di volta in volta con una torcia elettrica o con il flash ha evidenziato le superfici e i volumi  per lui più significativi di ciascun edificio, in un processo di progressiva sommazione da cui alla fine doveva scaturire l’immagine finale. E’ chiaro che questo procedimento aveva sempre a fondamento un progetto ben definito a cui doveva corrispondere un adeguato controllo tecnico, e però è anche evidente che il caso entrava pur sempre in gioco, non potendo (e non volendo) il nostro artista pre-determinare ogni aspetto dell’immagine: ma è proprio questa intrusione della casualità (in qualche modo controllata) che distingue l’arte, anche quella fotografica, dal freddo risultato tecnologico. Dunque il titolo scelto dall’artista per questa serie di immagini (Contrattempo) risulta davvero efficace sia perché sottolinea la possibile confluenza nel risultato finale di elementi non pre-visti, sia perché evidenza il ruolo determinante del tempo nella forma con cui appaiono i soggetti (spesso vecchi edifici abbandonati o dismessi) ma pure nell’azione fotografica costruita, come sì è detto, grazie a una posa molto lunga e per addizione di elementi di volta in volta messi in evidenza dalle sorgenti luminose attentamente calibrate dall’artista secondo la regola di un contrappunto cromatico ben temperato, in una sorta di fertile contaminazione tra fotografia e pittura.

E però c’è qualcosa di più, in queste opere. Ad esempio per la mostra presso i Colonos sono state selezionate le fotografie in cui  compaiono delle figure umane, delle sagome, delle ombre che sono traccia di una presenza. Nel 1839 Fox Talbot, l’inventore della calotipia, ebbe a scrivere: “La più transitoria delle cose, un’ombra, l’emblema proverbiale di tutto ciò che è evanescente e momentaneo, può essere incatenata dalle sorti della nostra magia naturale, e può essere fissata per sempre nella posizione che sembrava dover occupare solo per un istante”. Ne deriva però che anche la fotografia, che può catturare un’ombra, ha a che fare con tutto ciò che è transitorio, anzi con tutto ciò che è ombra. Stefano Tubaro sicuramente ne è ben consapevole e nella serie Contrattempo lo manifesta chiaramente sia attraverso il metodo che attraverso i risultati: egli applica una posa lunga o lunghissima per fissare l’immobilità (temporalmente apparente) degli edifici abbandonati e però una posa breve o brevissima per fissare l’immagine di una presenza umana, come dire che quelli corrispondono alla lunga durata storica e le presenze umane a quella breve, passeggera, transeunte. E queste stesse presenze (autoritratti dell’autore sotto forma di un’ombra che ricorda certe figure sfuocate o mosse dei primi tempi della fotografia) spesso hanno i contorni spezzati o frammentati che le apparentano, sia pure per altra via, alle immagini della serie Cinque x uno (1992-1993) e a Ritrattati (1996): nel primo caso una visione frammentata del corpo di un individuo e nell’altro il ritratto velato di un volto, che però corrispondono pur sempre alla consapevolezza di ciascuno della precarietà della propria immagine e dunque della propria personalità come può essere percepita (ma si potrebbe dire  “vista”) dagli altri: pirandellianamente conscio di essere uno, nessuno e centomila l’individuo con la gestualità del corpo cerca di dar forma a un’identità coerente, ma in realtà non si svincola da una frammentarietà che per assurdo (ma poi non tanto) può diventare puzzle dadaista perfino ai suoi stessi occhi.

Guardiamo allora alle immagini di Tubaro con occhi attenti non tanto a ciò che vogliono apparire al primo sguardo, ma a quello che comunicano o con l’austerità modernista del bianco e nero o con i colori acidi della postmodernità. Sono queste immagini delle narrazioni sceniche che hanno per protagoniste tante microstorie, magari quelle che hanno avuto come ambito del loro precario concretizzarsi i luoghi e le architetture della serie Contrattempo che il nostro artista ha fatto diventare piccoli teatri del sentimento del tempo attraverso flash e spiragli di luce nelle tenebre. Queste fotografie possono indurci per davvero a considerare il nostro rapporto con il passato con gli occhi del presente. Naturalmente senza ipocrita nostalgia, bensì con una  nuova consapevolezza del saper vedere.

Angelo Bertani

(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Metamorfosi dai lûcs”, Agriturismo Colonos – Villacaccia di Lestizza e Galleria Tina Modotti – Udine 2016)